Traversando ai piedi della dorsale tra i monti Sibilla e Porche

Alla scoperta dei Sibillini, per le valli e i sentieri meno conosciuti.
Versante marchigiano, prima di arrivare a Foce, si sale dal fosso Zappacenere, la Sibilla lassù in alto a vegliare, lungo traverso sotto una delle creste più belle dei Sibillini, salita alla sella del Porche, il Sasso Borghere e discesa dal laghetto del Sasso per la val Canale. Peccato che poi sul più bello sono scese le nuvole è la nebbia l'ha fatta da padrona.


In balia dei numeri e degli eventi di questo improbabile momento storico è già nell’aria un nuovo cambio di colore, torneremo arancioni e da lunedì prossimo saremo costretti dentro i confini del comune; il prossimo e per chissà quanto, sarà l’ultimo weekend in cui saremo liberi di scorribandare in montagna, anche se comunque sempre costretti a rimanere all’interno dei confini regionali. Abbiamo un pezzo di Laga e la a metà dei Sibillini a disposizione, e per fortuna solo l’indecisione della meta. Il meteo promette una bella giornata, ci siano mossi direzione Foce e anche informati sulla condizione neve, le coste tra la Sibilla e il Porche quello che dovevano “svalangare” lo hanno fatto scendere, era ora di andare a conoscere da vicino la più bella cresta dei Sibillini, camminando però sotto alla sua base, una volta raggiunto e aggirato Sasso Borghese saremmo scesi al laghetto e da lì per la stretta val Canale saremmo tornati alla macchina. Avevamo previsto tutto tranne le nuvole e la nebbia, è stato un percorso superlativo lo stesso ma del Sasso Borghese abbiamo visto solo una impalpabile ombra e alla fine siamo stati costretti ad accorciare il tracciato scendendo direttamente alla conca ghiacciata del lago; peccato perché con le condizioni di oggi quel posto doveva meritare davvero tanto. Senza raggiungere Foce, poco prima del borgo e poco prima dell’area pic nic da dove parte il sentiero per val Canale da cui torneremo, parcheggiamo nello spiazzo dove sorge una piccola edicola, accanto ad una capanna scorre una carrareccia che prendiamo per inoltrarci verso il fosso Zappacenere. La valle è intricata da bassa boscaglia e arbusti di rose selvatiche, belli gli speroni rocciosi che si alzano sulla destra e le coste della Sibilla che chiudono la valle. Seguiamo la carrareccia brecciosa per poco più di un chilometro fin tanto che non sembra infilarsi nel fondo del vallone ormai molto intricato, fino al punto in cui da sinistra mi accorgo convergere dalla sinistra un sentiero contrassegnato da bandierine bianco rosse, non ne abbiamo visto l’imbocco alla piazzola del parcheggio; il sentiero, attraversa la strada e riprende sul versante di destra, ben contrassegnato da frequenti segnali. Un po’ di svolte a guadagnare dislivello fino a riemettersi su una larga strada brecciata che per mezzo chilometro continua diritta in leggera salita fino ad incontrare un incrocio, si tralascia la carrareccia che si stacca sulla sinistra e che sale ancora più repentina e si continua diritti in leggera discesa fino a girare intorno alla costa boscosa che avevamo a sinistra; la strada finisce per confluire su una traccia stretta che prende subito a salire con rapide svolte. Ripida e a stretti tornanti la traccia esce dal bosco su un pianoro nei pressi di una fonte anonima (+1,20 ore), vista stupenda sul Banditello fino al Redentore e sulla lunga dorsale che ormai ci scivola via sulla destra. Siamo a quota 1250 m. circa, sul limite delle nevi, macchie di prato arso si alternano a manti nevosi che più su si vanno compattando; i canali che scendono ripidi dalla cresta sono quasi puliti, ripidi e catalizzanti nel loro seguirsi uno a fianco dell’altro, le poche nuvole che ci sfilano sopra aumentano il fascino, tratto di montagna stupenda, mi sorprendo di non esserci stato prima. La neve copre la traccia, seguiamo la segnaletica verticale, e tra svariati sali e scendi iniziamo a traversare paralleli alla dorsale, entriamo nell’ultimo tratto di bosco e quando ne usciamo a sbarraci la via è un canale che scende dall’alto invaso da ciò che resta di una importante valanga; la neve è mista a terra, alberi sradicati, l’impressione della potenza di questo fenomeno è tutta lì davanti e non possiamo che fermarci un attimo per osservare l’ambiente in tutta la sua dirompente potenza. La superiamo agevolmente, gli ammassi sono blocchi di gelo, e in ogni caso qualcuno ci ha preceduto, la traccia è aperta. Sul lato opposto del canale ci impegna un traverso di una trentina di metri, un versante piuttosto ripido, impressionati da quanto abbiamo appena superato ci guardiamo intorno guardinghi ma la neve è ben consolidata e sembra non molto alta, scaviamo la traccia a pedate fino ad uscire dal traverso e superiamo la gobba. Davanti i profili si vanno confondendo con le nuvole, domina ormai il bianco del manto nevoso, una serie di altri canali e gobbe si susseguono fino ad una più prominente che sembra più ripida e impegnativa. Scegliamo le linee più logiche per coprire meno dislivello mentre la segnaletica verticale non esiste più, i profili della dorsale e la sagoma della vetta di Sasso Borgese si vanno perdendo nelle nuvole che iniziano ad essere meno filamentose e più stagnanti; temiamo che si attestino sulla parte alta della valle, sarebbe una disdetta. Tra il pensarlo e ritrovarci avvolti dalla nebbia è un tutt’uno, una di quelle situazioni che in montagna non sono rare e che precipitano tutto insieme. L’ultima cosa che scorgiamo è il profilo della fonte dell’Acero che raggiungiamo proprio su quella gobba più irta che avevamo notato da lontano (+1,30 ore); sfioriamo la serie di vasche che forma la fonte ma non la raggiungiamo, approfittando di un paio di metri quadrati scoperti da neve proprio sopra una piccola dorsale decidiamo di montare i ramponi, iniziava ad essere complicato salire senza correre il rischio di scivolare. Sulla desta tre faggi in fila sono l’unico riferimento che abbiamo, nel bianco della neve e nel grigiore della nebbia sembrano i guardiani della fonte che sgorga poco più in basso, chissà se prende il nome da loro? La gobba come sempre sembra non avere fine, le distanze sono indefinite, neve e cielo ormai sono dello stesso colore, saliamo fin tanto non sono le gambe a sentire che la pendenza si attenua; davanti un barlume di chiarore definisce il profilo della sella tra il Sasso Borghese e il Porche, il Sasso, ormai palesemente più vicino è solo una informe cuspide leggermente più scura e senza dettagli, solo il profilo di due che ci hanno superato interrompono l’uniformità del niente; non si intuisce davvero più nulla, siamo nel più totale whiteout e il silenzio è assoluto. Stava sfuggendo il goal di raggiungere la sella, il Sasso e di scendere sul versante del pian delle Cavalle verso il laghetto, la delusione c’era ma nello stesso tempo ci rendevamo conto che stavamo vivendo un momento insolito e diverso e che in cambio stavamo ricevendo un altro tipo di emozione; ci siamo concessi un sacco di soste, sia per cercare di riflettere e prendere le giuste decisioni che per far adattare il cervello; a tratti ci sentivamo disorientati, confusi, quasi in preda a vertigini. Ricordo che avevo fretta di decidere quale direzione prendere, oggi che scrivo mi dispiaccio di non essere rimasto più a lungo a farmi rapire da quella situazione inconsueta e irreale e per questo fascinosa. Si era chiusa ogni parvenza di orizzonte, le linee della sella erano solo nella nostra memoria e a questo punto anche pensare di averla memorizzata in qualche direzione poteva essere un gioco pericoloso; decidiamo di convergere nella testata della valle e raggiungere la conca del laghetto, per farlo ci affidiamo ai sensi e alla lettura delle pendenze, di per sè non difficili da interpretare, ma siccome in quelle condizioni i dubbi non si risolvono mai, qualche titubanza continuava a seguirci. Dovevamo continuare a traversare verso sinistra e scendere lentamente fino a portarci a sfiorare la parete del Sasso Borghese, pensavamo fosse la cosa più logica da fare, ma del Sasso non c’era ombra e le distanze erano annullate; senza accorgercene ci troviamo nel mezzo di una massa disordinata di neve, avvicinandoci ci accorgiamo che ciò che rompeva la continuità della nebbia erano i contorni di grossi blocchi grandi come automobili che erano disseminati lungo il pendio, era un’altra vecchia valanga, stavolta di grosse dimensioni, dovevamo attraversarla ed è stato paranoico farlo perché davvero si perdeva la direzione da mantenere, l’unico elemento che ci guidava rimaneva la linea di pendenza. C’è voluto un pò, era molto larga e scomposta, come in precedenza i blocchi erano duri e fermi, nulla ci dava sensazione di instabilità; oltrepassata continuavamo a non percepire la presenza della parete del Sasso, eppure eravamo consapevoli che non dovevamo esserne lontani, avevo il dubbio se iniziare a scendere con più decisione iniziando anche a girare maggiormente verso sinistra, la sensazione era che avevamo raggiunto la testa della vale. Mentre rifletto su queste congetture intercettiamo una traccia di diverse persone che sale più verticale dal basso, a dire il vero le orme andavano in tutte e due le direzioni, non poteva che essere quella di chi dal lago era salito alla sella oppure da questa era sceso. La seguiamo ma presto si perde ancora nei segni di un altro piccolo smottamento, forse una deriva laterale della valanga che avevamo da poco attraversato; in maniera improvvisata riusciamo a ritrovare le tracce e le seguiamo fino a raggiungere un tratto quasi pianeggiante, una spianata immacolata di neve vergine; pensiamo sia la conca del laghetto e ci rilassiamo, nella bolla che avevamo intorno ci fermiamo per mangiare qualcosa e vivere l’impalpabilità del momento; nella testa c’era tutto quello che avevamo intorno ma tutto era celato, era un gran peccato eppure era anche un’occasione da non perdere e che valeva davvero la pena vivere. Nel silenzio del momento sentiamo delle voci più in basso, lontane, vanno e vengono, inutile provare a localizzarle ma mi fanno insospettire che forse siamo più alti rispetto al laghetto, non sarebbe cosa strana viste le condizioni che annullano distanze e percezioni. Quando ripartiamo ci rendiamo conto che siamo sopra un alto salto, subito ci siamo trovati a scendere un ripido dislivello, pochi metri sono bastati per calare al di sotto dello strato di nebbia più fitta, l’orizzonte si è allargato quel che è bastato per individuare finalmente la vera conca del lago un centinaio di metri più in basso nonché la val Canale che più giù prendeva a scendere scura e incassata (+1,40 ore). Il lago ovviamente possiamo solo intuirlo, credo che ci sia almeno un metro di neve sopra, si percepisce l’ampio catino, intorno solo pendii imbiancati che si perdono indefiniti nella nebbia che annulla ogni altro profilo; qualche roccia scoperta su una dorsale laterale interrompe la piattezza del grigio. Le voci erano di un gruppo di ragazzi, saliti fin quassù per “giocare” con un drone che ogni tanto ci volava sopra la testa; immagino che non porteranno a casa immagini definite. Iniziamo a scendere dentro la valle che ci porta a “casa”, non la ricordavo così ripida e stretta; il vento aveva fatto il suo dovere, ci saranno stati alcuni metri di neve al suo centro a giudicare dagli alberi che spuntavano solo con i rami più alti. Un ultimo sguardo sulla valle del laghetto, il Sasso continua a rimanere nascosto, l’imponenza di una delle pareti più belle dei Sibillini si arrende dietro uno strato di nebbia; una bolla, una bolla inconsistente è ciò che abbiamo davanti, un niente impalpabile che nasconde uno scrigno che oggi non si è rivelato. Bellissimo lo stesso e poi … pazienza, le montagne non si muovono, torneremo presto. La discesa è veloce ma a tratti insidiosa, la neve bagnata forma uno zoccolo alto, rimanere in piedi a volte è un successo; seguiamo le tracce di chi è salito, districandoci tra la vegetazione che in alcuni punti arriva quasi al centro del fosso; la valle si allarga e si stringe continuamente il toponimo di Canale è quanto di più appropriato gli potevano affibbiare. Si insinua tra le coste ripide che ha intorno e ben presto gli orizzonti si annullano inghiottiti dal bosco e dalle montagne stesse. La neve ce la teniamo quasi fino a quota 1200m. quasi fino alla strettoia dominata dal costone roccioso che incombe e che a vedere da ciò che c’è sul terreno ogni tanto molla anche qualche masso dalle dimensioni considerevoli; il costone segna quasi la fine della valle, un ultimo salto di pendenza e già la linea della valle dell’Aso si intuisce. Quasi in fondo stavolta imbocchiamo la traccia giusta, evitiamo di finire a Foce e tenendoci sulla sinistra arriviamo all’area picnic (+1 ora) da dove per chiudere l’anello non ci rimane che percorrere 300m. di strada asfaltata, accanto al rigagnolo del fiume Aso che qui è davvero poco meno di un fosso. Davvero un peccato non aver potuto godere fino in fondo gli ambienti che questo pezzo di Sibillini sa regalare, ma non potendo godere di una cosa ne abbiamo vissuta una diversa, l’immersione totale nel whiteout assoluto è preziosa come la parete del Sasso che non abbiamo visto; col senno del dopo la sensazione di non riuscire a scorgere oltre i nostri passi, il silenzio e il nulla da cui eravamo attorniati, lo stordimento che si provava nel tentativo di scorgere qualcosa da qualche parte sono state emozioni indimenticabili che è bello aver vissuto, aiutati sicuramente dal fatto che in qualche maniera la consapevolezza di essere sempre stati silenziosamente consapevoli di conoscere la via del rientro non ci ha tolto la serenità.